di Alessandro Triulzi
Dagmawi Yimer è uno dei tanti giovani del Corno d’Africa che hanno scelto di lasciare il proprio paese per venire a vivere tra noi. Come alcuni dei rifugiati intervistati nel film, Dagmawi viene da un quartiere povero e ribelle di Addis Abeba, Kirkos, dove ragazzi come lui si riuniscono la sera a parlare di cambiamento e di come migliorare la propria condizione. Come cento anni fa si faceva anche da noi in Italia. Poi la svolta, improvvisa. La decisione di partire - per motivi politici, per necessità, per scelta irrinunciabile - verso l’ignoto, la dispersione, lo spaesamento. La necessità di imparare le leggi del viaggio e della sopravvivenza, passare le fitte maglie della violenza organizzata, della collusione tra polizia e mercanti di uomini, della corruzione, dello sfruttamento. L’odissea narrata dai giovani intervistati nel film è una metafora del mondo contemporaneo e della mobilità transnazionale oggi, con i suoi assurdi divieti, le sue regole e complicità, le sue politiche di esclusione. Solo una piccola parte dei migranti africani viene in Europa, e solo una piccola parte approda sulle nostre spiagge, intorno al dieci per cento in entrambi i casi. Ma la storia dei sopravissuti ‘libici’, perché tali sono, è una storia esemplare che pone domande angosciose a un paese, come l’Italia, che è stato a lungo paese di migranti, e alla Libia, dove l’Italia durante l’occupazione coloniale ha condotto i suoi primi esperimenti di campi di concentramento e di repressione delle popolazioni nomadi.