Storie di rifugiati che, dopo il deserto e il mare, hanno smesso di nascondersi, e sono usciti allo scoperto, per camminare a testa alta, come un uomo sulla terra. Storie di rifugiati che accusano senza mezzi termini la polizia libica di violenze e torture nei campi di detenzione finanziati dall’Italia. Storie che ribaltano i ruoli. E fanno delle migliaia di “clandestini” che sbarcano sulle nostre coste, altrettanti testimoni di un durissimo atto d’accusa. Troppo spesso infatti il dolore viene rimosso subito dopo l’arrivo a Lampedusa, viene vissuto come un dramma privato, coperto dall’onta. E invece non può non essere un dramma collettivo. Per il numero di persone coinvolte (oltre 50.000 deportati l’anno) e per le chiare responsabilità dell’Italia. Se queste storie passeranno sotto silenzio, sarà come far morire due volte le vittime dell’emigrazione africana. I loro corpi giacciono a migliaia sulle piste del Sahara e nei fondali del Mediterraneo. E chiedono giustizia.