Come un uomo sulla terra

Il viaggio disumano dei migranti africani verso l’Europa. Tra violenze, abusi, e incarcerazione arbitrari in carceri libiche finanziate dall’Italia. Esseri umani comprati e rivenduti, rinchiusi in container, picchiati e sfruttati da poliziotti libici e trafficanti sudanesi, decisi di andare avanti per raccontare il prezzo del nostro “Occidente”.

di Flore Murard-Yovanovitch

Tutte le mappe d’Africa, non potranno mai raccontare questo viaggio. Disumano. Le torture e abusi dalla polizia di Gheddafi sui migranti africani che tentano il viaggio verso l’Europa, dal Sudan, Etiopia, Eritrea ed altri paesi subsahariani. Immaginando si il rischio di attarversare il più grande deserto del mondo, ma mai di essere scambiati, “rivenduti” come merci, detenuti arbitriamente nelle carceri libiche. Lenta discesa nello “stato” del non diritto, sulla frontiera “esternalizzata” della fortezza Europa.

Ci voleva il documentario-inchiesta “Come un Uomo sulla Terra” di Dagmawi Yimer, Andrea Segre e Riccardo Biadene, per svelare gli abusi e le vere e proprie deportazioni in atto sul territorio libico, da un governo pagato da quello italiano. Un scandalo rimasto per mesi nel silenzio più totale del governo e dei media. Ci sono voluti i rimpatri forzati di più di 500 migranti africani questi ultimi giorni verso Tripoli e i pattugliamenti congiunti italo-libici, per rompere il tabù. Se il film si è riuscito a vedere è stato grazie al passaparola, alla diffusione dal basso, una scelta consapevole dei registi, di centinaie di realtà associative: alla straordinaria mobilitazione di una società civile che resiste alla xenofobia.

E’ un viaggio di alcuni mesi, ma che avrai a vita stampato sulla pelle. Dentro. Dagmawi Yimer (Dag), giovane Etiope, e gli altri superstiti Etiopi e Eritrei del viaggio, “approdati” a Roma alla scuola d’italiano Asinitas Onlus decidono dio testimoniare. Dag studiava giurisprudenza a Addis Abeba, quando la repressione politica e il sogno di uno stato di diritto in Europa, l’hanno spinto ad emigrare. E’ approdato a Lampedusa, stremato su un barcone stracolmo nel 2006, dopo mesi di sopraffazioni, multi-arresti e passaggi per vari centri di detenzione. Violenze. Tutte arbitrarie. Superato la propria storia, Dag è diventato regista, per raccogliere la storia degli altri e fare memoria.

E’ un film tutto costruito sulla parola e l’ascolto paziente delle esperienze spesso inaudibili dei coetanei. Tessere i ricordi, è stato infatti solo possibile dall’esperienza condivisa del terribile viaggio, dall’intimità di una lingua condivisa. Le storie sono raccontate tra emigrati in prima persona, senza il filtro di uno sguardo esterno. Un dialogo in una cucina, sull’orlo dell’indicibile.


Immagini. Intassamenti di corpi su camions attraverso il deserto tra Sudan e Libia – mortale, per chi, per il troppo affollamento, ne cade – come Tasfae e Yared, e altri donne e uomini abbandonati intere settimane in mezzo al Sahara. La sete. Le ore. Immagine quasi surreale delle piste che si perdono nel nulla, profetica, per dire tutto l’ignoto di quest’avventura. Prima del peggio: la chiusura in containers di metallo per essere portati più a Sud. Vere e semplice “deportazioni”.

Da “uomo”, diventi “merce”. La cinepresa si attarda in dettaglio su un container vuoto in mezzo al deserto. E all’improviso puzza di paura, di vomito e di piscia che ti fai addosso. Soffochi. E uno dei piani più efficaci del film, per ricordare tutti gli scomparsi, morti di sete, picchiati a morte, abandonnati nel deserto, o svenuti nel nulla. Di un carcere libico.

Kufrah. Un nome che fa ancora tremare i rari superstiti. Cinque celle in verticale, il cesso in mezzo. Senza acqua, “nemmeno le bestie potrebbero starci”, oggi si pensa che sono ancora 700 “a marcire lì”. Uomini e donne che di male non hanno fatto niente, solo quello di “emigrare”. Sui muri, gli anni di detenzione, i paesi di provenienza : Ghana, Mali, tutta l’Africa migrante è passata qua. E queste scritte: “se questo è emigrare, è meglio la morte”. Un “centro di custode temporaneo”, dove entri, senza tribunale, e da dove non sai mai, quando uscirai. Se ne esci; paradosso, se hai la “chance” di essere “comprato” da un contrabbandiere sudanese. “Sono stato arrestato 7 volte, incarcerato, rivenduto 5 volte”, racconta John, uno dei testimoni. E aggiunge, ancora incredule, “questo, essere “venduto’, non l’avrei mai immaginato. Perché sono un uomo”. Si tratta infatti di vero e proprio traffico di esseri umani, un business che fiorisce, di 400 dollari a testa per ogni “passaggio”.

Kufrah, è uno dei campi di detenzione finanziato dall’Italia in Libia. Gli ultimi “accordi bilaterali”, rifirmati ogni anno tra i due paesi, come l’ ultimo Trattao Italia Libia firmato a febbraio scorso, prevedevano dalla parte dello stato italiano, formazione delle “guardie nazionale, e “assistenza tecnica” per il controllo delle frontiere: “radar, gommoni, …e 1000 buste per i cadaveri”. Gli stati membri delegano la responsabilità del controllo, in scambio di accordi commerciali (e non indifferente petrolio libico) ai paesi del Maghreb, che non brillano certo per la difesa dei diritti umani. Tutti i mezzi sono permessi.

Quando il documentario si spinge al confronto diretto con i responsabili politici come Frattini, Ministro degli Esteri, o il coordinatore di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne), parlano di “flussi”. Mai di uomini. Questa Agenzia ha un budget europeo di 71 millioni di euros, per chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti dell’uomo in atto in Libia, un paese che non ha mai firmato le Convenzione internazionale sui profughi, ne cui quella di Ginevra…

E quando a volta, la parola non può più dire, ci sono gli sguardi, ancora increduli. Immensa dignità, pudore dei testimoni. Gli stupri, le leggi nei volti. Sono senza rabbia, vogliono una cosa sola: che le violazioni siano denunciate e fermate. Come dice Tighist, giovane donna etiope di 23 anni, “affinché nessuno mai più dovesse compiere questo genere di viaggio”.

Tutti noi dovremmo vedere questo film, è una questione morale. Per sconvolgere le nostre coscienze, di essere cittadini italiani. E dell’ Europa.

COME UN UOMO SULLA TERRA
Andrea Segre e Dagmawi Yimer
in collaborazione con Riccardo Biadene
durata: 68’

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