RITORNO A LAMPEDUSA

Il ritorno di Dag a Lampedusa, raccontato da Stefano Liberti per "Il Manifesto"

IL VIAGGIO A RITROSO DI UN FORZATO DEL MARE Arrivato nel 2006 su un barcone proveniente dalla Libia, Dag torna oggi sulla terra del suo primo approdo italiano. Un ritorno anomalo, per raccontare agli abitanti dell'isola il vero volto dei «viaggi della speranza»

Dag guarda l'orizzonte. Osserva la distesa blu, il sole che infiamma la spiaggia e colora di un verde abbagliante la baia dell'isola dei Conigli. Scruta in lontananza e sospira: «Lo sapevo che sarei tornato. Sapevo che sarebbe successo». Poi rimane in silenzio. Il silenzio di un ricordo che sta fissato in mente, di un arrivo che è stato anche partenza, di uno sguardo sospeso su un passato che si fa presente. 
Dag era già venuto a Lampedusa. Era arrivato al molo degli sbarchi. Aveva trascorso una settimana al centro vicino all'aeroporto, quello vecchio, ora chiuso e usato solo come sala d'attesa per i charter pieni di immigrati diretti verso i Cpt in giro per l'Italia. Era poi stato portato sul «continente», a Trapani, dove gli è stato riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria. Era il 30 luglio 2006 e Dag arrivava da sud a bordo di un barcone di legno con 32 compagni di viaggio. Oggi è tornato sull'isola da nord, con il piccolo Atr che ogni giorno tre volte al giorno viene traballando dall'aeroporto di Palermo. Dag ha in tasca il permesso di soggiorno e la carta d'identità bianca dai bordi marroni. Nello zaino ha la telecamera. Negli occhi accesi, la gioia di rivenire qui da «turista». Nelle pieghe del suo sorriso discreto, l'emozione del ritorno in un luogo importante. Dag è «un uomo sulla terra», come vuole il titolo del film di cui è protagonista e regista. Un uomo sulla terra del suo sbarco. Un uomo che porta con sé la fatica di quel viaggio e la consapevolezza di quella fatica. Un uomo che vive il ricordo di quel giorno, nitido e invincibile, come fosse ieri. 
Lampedusa sono i pochi fotogrammi che aveva visto dal finestrino dell'autobus della polizia e aveva registrato nei minimi dettagli: il molo asfaltato e, di fronte, la spiaggia «baia turchese» zeppa di gente, la strada del porto, la viuzza stretta attraverso cui era passato l'autobus per evitare il centro e l'affollata via Roma. Lampedusa era l'Italia, e «quando sono arrivato mi è piaciuta subito». Era «la terra» per lui che veniva dall'altra sponda. È ancora la terra, il suolo che aveva toccato quel giorno e che oggi può ritoccare mille volte, soppesandolo e annusandolo. Per chi viene dal continente l'isola è soprattutto il mare che la circonda. Per Dag è il contrario: è la terra avvistata da lontano, è l'approdo. È e rimarrà sempre quella boa di scogli in mezzo a una distesa blu. 
Dag chiede in continuazione dei punti cardinali. «Dov'è il sud? E l'ovest? Lì in fondo c'è la Libia?». È come se volesse collocare precisamente questo punto in mezzo al mare, volesse adagiarlo su una mappa nel verso giusto. È come se, dalla posizione dell'approdo, volesse ricostruire il tragitto della traversata. «Ricordo che durante il viaggio eravamo in difficoltà, non avevamo un Gps. Alcuni volevano andare a Malta, che era più vicina. Altri insistevano per continuare e cercare di fare rotta su Lampedusa. Eravamo divisi sulla barca. Poi abbiamo avvistato la terra». Alla Porta d'Europa, il monumento ai migranti morti in mare realizzato dallo scultore Mimmo Paladino, si sofferma su una scritta in basso, piccola ma significativa. Ancora quella parola: «Terra». L'isola che c'è. L'ultimo e il primo avamposto d'Italia. È il tema che ritorna, la fine di un viaggio e l'inizio di un nuovo percorso. 
Dag gira per Lampedusa, guarda e ricorda. Guarda il vecchio centro di permanenza temporanea, pieno di bottiglie d'acqua abbandonate dagli ultimi passeggeri in partenza, e ricorda quei giorni di luglio trascorsi lì dentro. Guarda la barca dei guardiacostiera e si ritrova lì, insieme ai suoi compagni, quando è stato fatto salire e dal pontile ha visto la sagoma dell'isola sempre più vicina. Guarda il molo e indica con un dito il punto esatto in cui è rimasto a sedere una ventina di minuti prima di essere caricato sull'autobus. Guarda dalla macchina scorrere il lungomare e ricorda quell'altro giorno, due anni e mezzo fa, in cui quello stesso lungomare gli è sfilato di fronte agli occhi veloce e irripetibile in tutt'altra situazione. 
Dag ritorna a Lampedusa come memoria vivente. Il ricordo del viaggio diventa necessità, esigenza di non dimenticare. Non solo la traversata, ma anche quello che c'è prima: l'esperienza del transito in Libia, le difficoltà, il razzismo, il terrore di essere catturati. La Libia riecheggia in una serie di suoni, nomi di città che diventano altrettanti simboli di tappe del viaggio, ostacoli da superare: l'allucinante campo di Kufrah, dove gli etiopi e gli eritrei sono venduti come carne da macello, il quartiere di Gurji, a Tripoli, dove si aspetta l'imbarco, e il carcere di Misratah, dove grappoli di suoi conoscenti sono rinchiusi da mesi. «All'inizio, quando sono arrivato, non volevo tanto ripensarci. Poi ho capito che era importante ricostruire, narrare, far sapere. È un dovere civico, sia nei confronti di quanti ancora non sono arrivati o si sono persi durante il viaggio, sia nei confronti degli italiani, che non sanno bene cosa succede a sud di Lampedusa». Dag ha raccolto racconti, ha convinto i suoi amici a narrare le loro traversie, che erano state anche le sue, ha messo insieme un groviglio di storie. Ne è nato un documentario, che racconta di loro, del loro viaggio, ma parla a noi, cittadini del nord che osserviamo sbarcare i «clandestini» e spesso non sappiamo quale bagaglio di esperienze, di sofferenze e di gioie portano con sé quegli uomini e donne che arrivano scalzi sulle nostre coste. 
Oggi Dag è venuto a mostrare il film a Lampedusa, ai lampedusani, agli abitanti di quella boa perduta in mezzo al mare. La platea è variegata: c'è il sindaco, ci sono rappresentanti delle forze dell'ordine, ci sono i guardiacoste, ci sono i lampedusani. C'è uno spaccato dell'isola: i locali e i forestieri. Mancano solo gli «ospiti» del centro di identificazione ed espulsione di contrada Imbriacola, rinchiusi dentro da due mesi in attesa do conoscere il proprio destino. Dag ripensa ai suoi amici ancora in Libia, al suo passato che ritorna ogni volta che mostra il film, ogni volta che risponde alle domande degli spettatori. È serio e visibilmente emozionato. Quando parla dei suoi compagni di viaggio, si commuove. 
Dag ha indosso una maglietta. È una maglietta nera, con su scritti in bianco i versi di una poesia di Kostas Kavafis. «Sempre devi avere in mente Itaca
raggiungerla sia il pensiero costante
soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada». 
Non sappiamo se Lampedusa sia la sua Itaca, ma certo è che Dag non ha ancora smesso di viaggiare. 

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