DIARIO DA OUAGADOUGOU 2

I I due amici liberiani (che in queste foto vedete mentre stanno guardando le immagini del film) sono figli della stessa madre. Durante la guerra in Liberia la madre era da un parte del paese e loro nell’altra. Perché studiavano. In un collegio fuori Monrovia.

La madre, dottoressa nel più importante ospedale della città, è stata assegnata ad un progetto per rifugiati negli Stati Uniti ed ora vive e lavora a Philadelphia. Loro sono in viaggio da 7 anni.


Ce l’hanno raccontato ieri dopo aver visto insieme le immagini di A SUD DI LAMPEDUSA, dove hanno rivisto e rivissuto il viaggio fino a Dirkou. “Mi sento come se fossi ancora nel camion. Era una lotta stare lassù. Un continuo spingersi per avere uno spazio più sicuro. Io viaggiavo qui davanti – racconta Phil indicando uno deI camion che scorrono sullo schermo – Qui, sopra la cabina del conducente. Era dura perché avevo il vento e la sabbia in faccia, ma ero un po’ più comodo. Ma quanto freddo ho preso nel deserto. LA notte è terribile. Si gela. E non avevamo le coperte. Senti i miei polmoni, sento male quando tossisco e mi gira la testa. Come se gli occhi iniziassero a roteare da soli.” Suo fratello riesce a mala pena a tenere gli occhi paerti, perché la notte priam ha mangiato dei fagioli andati a male e il suo stomaco non gli dà pace.

(LEGGI QUI L’ARTICOLO PUBBLICATO DA GABRIELE DEL GRANDE SULLA LORO STORIA)

 

Ce ne sono a migliaia di storie di disagio e dolore come la loro in giro per l’africa, e non è certo la compassione per la sofferenza che mi spinge a stare con loro. E’ ciò che la loro storia può aiutarci a spiegare agli italiani e agli europei. Loro sono oggi dei viaggiatori “falliti” o “bloccati”.  Gli Stati dell’Africa Subsahariana ne sono sempre più pieni. Ragazzi, anche e soprattutto di famiglie agiaate e con molti anni di studi alle spalle, che entrano nel vortice dell’avventura, convinti di poter sfidare gli europei e mossi dalla voglia di vincere la sfida. Il diritto a viaggiare è completamente annullato. Al suo posto ci sono deportazioni, arresti indiscrimanti, lavori forzati ed espulsioni. Viaggiatori possono essere solo i pochissimi che appartengono alle classi al potere. E tra questi, è inutile nasconderlo, vi sono anche i registi e gli attori ospiti del Fespaco.

 

 

Figli delle classi intellettuali e della diaspora, lucide menti attente e critiche, appartenenti ormai più alle società europee e americane, che a quelle africane. Una contraddizione non facile da dipanare, dove la libertà di espressione e di informazione ricercata e trovata all’estero si scontra con la scelta di fuga e di separazione dalle realtà difficili dei paesi di origine. Gli autori dei film del Fespaco costituiscono lo sguardo necessario e importante sulle dinamiche sociali e politiche del continente africano. Eppure rappresentano anche quella piccola elite di africani che hanno garantito (quasi sempre) il diritto di viaggiare, di conoscere e  a volte anche di fuggire o di tornare. Sono gli europei africani e con gli europei infatti loro lavorano.

Così succede che Oswald Levat, regista camerunese basata in Canada, costruisce una delle denunce (se non l’unica) più belle e attente della democrazia tropicale camerunese. “Un affaire des negres”, è una ricostruzione precisa e profondamente umana della persecuzione tirannica e poliziesca scatenata nel paese dal Governo tra il 2000 e il 2001, quando per “accrescere la sicurezza interna al Paese” (gli echi delle demagogie italiane non possono non risuonare nelle nostre orecchie) furono creati dei corpi speciali di polizia ed esercito per eseguire rastrellamenti e esecuzioni di massa in tutto il Paese. Una denuncia che parte da uno sguardo sottile (sublime la fotografia) e da un ascolto mai distratto, che ci conduce, in una delle sequenze più incredibili della storia del cinema documentario, ad ascoltare il racconto di uno dei soldati impegnati in queste unità speciali. E’ la voce della regista ad accompagnare il testimone e lo spettatore nelle memorie agghiaccianti di un carnefice, pedina inconsapevole di un passaggio oscuro e ancora insabbiato della storia camerunese, da cui molti europei avrebbero moltissimo da imparare.

E’ chiaro che Oswald Levat ha potuto raccontare tutto ciò anche grazie alla sua residenza all’estero (nonché ai finanziamenti europei e canadesi), ma sarebbe miope negare perciò l’importanza e la capacità critica e narrativa del suo sguardo forse “distante”, ma sicuramente molto lucido e consapevole. Come miope sarebbe negare altri sguardi della diaspora: dal delicato ritratto di Dany Kouyatè (burkinabè che vive tra Parigi e Stoccolma) su una vecchia donna della Guadalupe, ai quadri rossi e bianchi di polvere e sabbia di “En attendant les hommes” della belga-senegalese Ndyaye. Perché, poi, è proprio tra questi sguardi che si trovano analisi critiche e radicali delle politiche securitarie europee contro le migrazoni africane: “Victimes de nos richesses” di Kal Tourè (guineano di Amburgo) ne è un esempio importante e da non perdere (sempre che qualcuno mai avesse il coraggio di distribuirlo). Il documentario, che a dire il vero meriterebbe qualche settimana di montaggio in più, parte dal Forum Sociale di Bamako del 2006 e dal lavoro di Aminata Traorè, attivista maliana che ha creato uno dei primi centri di accoglienza per migranti espulsi dall’Europa o dai paesi del Maghreb, Marocco in testa. Il pregio del lavoro di Tourè sta nella capacità di cogliere le connessioni tra le politiche economiche del neocolonialismo occidentale e le misure di controllo e lotta all’emigrazione, che, come bene spiega Aminata Traorè nel film, è forzata e criminalizzata, ben prima di essere clandestina. Le testimonianze precise e delicate dei migranti espulsi dalle violenze della polizia marocchina non possono non ricordare quelle dei protagonisti di COME UN UOMO SULLA TERRA. Gli accordi Spagna-Marocco d’altronde si inseriscono nella stessa strategia europea che sottosta anche agli accordi italo-libici: far crescere l’alleanza economica e politica con i paesi del Maghreb, al fine di poter affidare a loro e ai  loro metodi la guerra contro i copri e le vite dei migranti, ottenendo nello stesso tempo il rafforzamento delle dittature che controllano le società di quei Paesi, nonché le loro influenze sui governi sempre più corrotti e sconfitti dell’Africa Subsahariana. Governi che da anni accettano complici le politiche protezioniste e neocoloniali di governi occidentali e delle istituzioni internazionali ad essi affiliati, e che ora si preparano ad accogliere i finanziamenti europei per accettare i ritorni dei loro cittadini violentati, deportati ed espulsi dalle polizie maghrebine. Un sistema e un meccanismo che costa e costerà migliaia di Euro alle democrazie europee e che accrescerà la chiusura e l’intolleranza delle nostre società (impaurite dai falsi allarmismi di improbabili invasioni e isolate nelle loro ignoranti cittadelle) e che bloccherà ancor più lo sviluppo economico dei paesi di origine dei migranti stessi.

Almeno che qualcuno oltre a partire non inizi anche a ribellarsi. Orizzonte per ora molto distante, schiacciato dall’intreccio tra potenza del miraggio e difficoltà del quotidiano, ma di certo possibile solo attraverso il lavoro e il racconto degli africani che hanno avuto ed hanno la possibilità di viaggiare, conoscere e capire.

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