Ieri sera quasi 150 persone hanno partecipato alla prima proiezione “africana” del film.
Eravamo all’interno del Centro Culturale Francese e il pubblico ha seguito con grande interesse una storia che nemmeno qui è molto conosciuta.
Una storia che vederla da qui ha un sapore diverso, ma nello stesso tempo ha anche la stessa urgenza e la stessa forza.
La diversità sta nella direzione dello sguardo, l’uguaglianza sta nella sensazione di rabbia e di vergogna.
E’ in qualche modo la sintesi della globalizzazione: vivere le stesse dinamiche, ma da punti di vista talmente diversi, da non poter altro che essere in conflitto. Un conflitto impraticabile, però. Perché lo squilibrio dei mezzi e delle forze è totale.
Vedere a Ouagadougou le immagini della stretta di mano tra il Colonnello e il Cavaliere, lascia una sensazione di tale impotenza, che l’unica reazione possibile sembra dover essere chiudere gli occhi e stringere i pugni in silenzio. Poi, per fortuna, la dignità e la forza dei protagonisti del film aiutano a riaprire gli occhi e a credere nella possibilità di una lotta. Impari, ma talmente necessaria da non poter essere abbandonata.
E’ evidente dove sta il potere. Di decidere. Di fermare. Di provocare. Di determinare.
Ma quel potere non può essere lasciato solo nella sua assolutezza. Solo le nostre voci critiche e i nostri viaggi di conoscenza e inchiesta possono evitare che il silenzio sia l’unica accoglienza dell’arroganza e della violenza.
A questo pensavo mentre molte persone, tanto africane quanto europee, mi cercavano dopo il film per chiedere cosa stessimo cercando di fare e quali fossero le reazioni del film in Italia. Ho raccontato loro delle decine di presentazioni che nascono spontanee in tutta Italia e ora anche in altri paesi europei, delle migliaia di spettatori e di firme raccolte. Ma anche dei silenzi volontari di istituzioni e di partiti, la cui unica attenzione è la ricerca del consenso elettorale di un popolo obnubilato dall’assenza di informazioni e vincolato ad un punto di vista sempre più provinciale e virtuale.
L’Italia sembra così piccola vista da qui. Così immobile nelle sue piccole faccende domestiche, così rattrappita da vecchi poteri che evitano accuratamente qualsiasi attenzione e respiro internazionale.
Il viaggio del film fuori dall’Italia sono sicuro aiuterà ancor di più la già grande forza di reazione che la società civile e antirazzista italiana ha già saputo costruire intorno al film stesso.
Se continueremo a credere in questo viaggio insieme, potremo far circolare anche nel nostro malandato paese un vento nuovo di ascolto e di comprensione profonda, non provinciale, non ipocrita e distratta. Anche e soprattutto su un tema così complesso come quello delle migrazioni, intorno al quale si sta gestendo un sistema di strategie economiche e politiche molto più profonde della superficie spettacolare che ci viene normalmente servita.
Stiamo raccontando una guerra che vorrebbero poter combattere nel silenzio sicuro del loro strapotere.
Farlo è e sarà difficile. Ma si può.
E che proprio di guerra si tratti, me l’hanno confermato due ragazzi liberiani incontrati ieri dopo la proiezione. Sono appena arrivati a Ouagadougou, di ritorno dalla Libia. La Guardia Costiera italiana li ha fermati a ottobre in acque internazionali, insieme ad altri 100 migranti. Li ha presi a bordo e li ha portati in acque libiche, consegnandoli alla polizia di Gheddafi. Non potrebbero farlo: una volta imbarcati in una nave militare italiana dovrebbero essere curati aiutati e accolti. Poi eventualmente (se non chiedono asilo) espulsi nel proprio paese. Ma ormai le regole non sono più rispettate. Come in guerra. Ora vale una nuova pratica : li consegnamo alla polizia libica e che poi ci pensino loro, come sanno fare loro. Sono stati caricati nel container, nello stesso container raccontato nel film, portati a Sabah, uno dei centri di detenzione costruiti con soldi italiani, costretti a 3 mesi di lavori forzati e poi scaricati nel deserto del Tenerè con uno dei camion merci che ho potuto filmare nel maggio 2006 per “A sud di Lampedusa”.
Ora dormono per strada a Ouagadougou, senza più nulla, senza nemmeno il coraggio di chiamare a casa per raccontare cosa è successo. “Preferisco che mia madre mi creda morto, piuttosto che racconatrgli tutte le violenze e le umiliazioni che ho subito in Libia”. Sono magrissimi, provati e molto malati. Ma lucidissimi: “Non immaginavamo di incontrare una guerra. Volevamo solo viaggiare”. Nei prossimi giorni con Gabriele Del Grande cercheremo di aiutarli a trovare un modo per tornare a casa, in Liberia. Ma non sarà facile.
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